Non mi fare paura, cm 50 x 50, 2016
arte e perturbante | die kunst und das unheimliche | art and the uncanny | l’inquiétante étrangeté
GIULIANO GALLETTA
non mi fare paura
a cura di Viana Conti
La personale Giuliano Galletta – Non mi fare paura, del ciclo tematico Arte e Perturbante, a cura di Viana Conti segue a quella dell’artista svizzera Chantal Michel – L’inquiétante Étrangeté. La mostra si struttura sulla linea dell’autobiografia come autoantropologia, dell’autoritratto come luogo d’inquietante familiarità, della citazione come slogan popolar-filosofico-letterario, del musical americano anni Trenta in funzione di détournement situazionista, del cinema Horror della Hammer Film anni Cinquanta, il cui climax si compie in una spettrale galleria di vampiri, mummie, maschere.
Chi non ha paura di far paura è proprio Giuliano Galletta per la cui opera non sembra inopportuno citare Edoardo Sanguineti quando scrive: Non c’è opera veramente comica se non ha in sé qualcosa di tragico e viceversa.
Giuliano Galletta (Sanremo 1955) si sposta dal Photobildungsroman al Diario intimo, facendo di un’identità in frammenti un collage di resti. Si registra nel corpus della sua opera una vocazione all’ibridazione parodica di operetta, avanspettacolo, film, tatuaggio, azione gestualità, scenografia, praticando altresì il cosiddetto Verfremdungseffekt/Effetto di straniamento brechtiano.
Immagine chiave della mostra è, di fronte all’ingresso, un’inquietante autoritratto la cui componente di familiarità, immediatamente percepibile, entra in conflitto con i tatuaggi di ispirazione Maori, producendo ostranenie nell’osservatore.
D’altronde, citando Gustave Flaubert, L’artista è una mostruosità.
Giuliano Galletta non cessa di lavorare alla struttura composita di un intimo Journal in cui prevalgono la scrittura come citazione, l’immagine come reperto, il colore rosso come investimento tragico-epico-erotico, il nero come batailliana, cimiteriale, pratica del lutto.
Nei resti alla deriva di un’identità d’autore/scrittore/artista/attore/giornalista/poeta, frantumata e dispersa, affiora, in sottotraccia, una partitura polisemica in cui arti visive, spettacolo, travestimento, sceneggiatura, musica, cinema, si contaminano in un perturbante métissage.
Premessa
Il titolo Arte e Perturbante, di ordine tematico, dato a questo secondo ciclo espositivo in divenire, dopo quello di Estetica del Gusto – Delizie e Veleni di un Menù di Massa, 2015, a cura di Viana Conti, intende ricondurre alla modalità in cui l’artista esprime una condizione emozionale non solo ambivalente, ma addirittura antitetica. Il Perturbante qui interviene come categoria estetica, sia essa visuale, musicale, concettuale, oggettuale, letteraria, performativa o filmica, analizzata nel suo dar adito ad un paradosso cognitivo. In tedesco il termine Heimlich, che significa familiare, intimo, si colora, nella sua perversione lessicale, del significato del suo opposto Unheimlich, che significa estraneo, non familiare.
Viene a crearsi così uno stato di frizione destabilizzante, a livello di senso, già a partire dalla sua definizione, che riconduce, in tal modo, al territorio psichico del turbamento. L’accezione del termine Il Perturbante in Ernst Jensch, lo psichiatra tedesco che lo ha usato, nel 1906, per primo, va intesa come indecidibilità tra le categorie di animato e inanimato, con l’esito di una conseguente dissonanza interpretativa. Con Friedrich Schelling l’Unheimlich si identifica con l’affioramento di ciò che deve restare nascosto, con il ritorno del rimosso infantile. A partire dal racconto di E.T.A. Hoffmann Der Sandmann/L’uomo della sabbia (1815), il riferimento ai giocattoli e agli automi diventa immediato. Ineludibile un rimando a Walter Benjamin quando individua, nel legame che il bambino intrattiene con il giocattolo, lo stesso rapporto feticistico che lega il collezionista al suo oggetto di collezione. Al termine Perturbante accenna, una prima volta, Freud in Totem e Tabù nel 1912-1913, riprendendolo, nel 1919, nel suo noto saggio Das Unheimliche, tradotto in Italia con il titolo, appunto, di Il Perturbante. Nel tempo, sarà poi con il critico letterario Francesco Orlando, formatosi alla lezione freudiana, che Il Perturbante diventerà Il Sinistro. Il termine Spaesamento viene talvolta usato con una connotazione affine. Quando in un’opera d’arte affiorano icone, figure, simboli, trasalimenti, sensazioni, scene primarie, riscontrabili anche in un inconscio collettivo, allora è agli archetipi (urtümliches Bild), teorizzati nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung, che è lecito riferirsi. Anche Guy Débord, mettendo in opera, con il détournement, una deriva estetico-percettiva, spezza linguisticamente i topoi della consuetudine e della convenzione, in ambito storico e contemporaneo, attuale e virtuale.
Il ciclo espositivo, che viene, di volta in volta, documentato da una pubblicazione bilingue (italiano/inglese o tedesco) edizioni C|E Contemporary, è teso a individuare e analizzare, nell’apporto creativo di ogni artista e nella relativa soluzione estetica, giusto la scintilla scatenante quel cortocircuito interno e quella dissonanza cognitiva, che ingenerano, nell’opera, la condizione del suddetto turbamento.
Questo ciclo internazionale si è aperto con l’artista svizzera Chantal Michel e prosegue con l’artista italiano Giuliano Galletta, con l’artista inglese Jane McAdam Freud, figlia dell’artista tedesco, naturalizzato britannico, Lucian e pronipote dello psicoanalista austriaco Sigmund, con Mauro Ghiglione e con il video-artista svizzero Peter Aerschmann