ESTETICA DEL GUSTO. Delizie e Veleni di un menù di massa
Terzo step: Roberto De luca | David Zehnder
a cura di Viana Conti
INAUGURAZIONE venerdì 11 settembre 2015 ore 18.00
ore 19 introduzione alla mostra della curatrice
mostra fino al 18 ottobre 2015
C|E Contemporary Milano, ha avviato un ciclo di mostre da maggio a ottobre sulla tematica dell’Expo Universale 2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi. Si tratta della messa in opera di una mostra d’arte che convogli una rappresentazione del gusto, nell’accezione del Cibo e del Bello, quindi di un’esperienza estetica correlata, necessariamente, all’essere biologico come all’essere ontologico. Già a partire dal termine, in latino classico, sapere si coglie la doppia valenza di aver sapore e sapere, di senso del gusto e di capacità di giudizio. La questione del gusto, tuttavia, connessa al piacere o al non-piacere, alla bellezza o alla non-bellezza, e più recentemente al Kitsch e al Trash, nelle tesi iniziali di Clement Greenberg e Gillo Dorfles, mette in campo letture differenti. Se da una parte sembra che il giudizio di gusto non possa prescindere dalla modalità di percezione di un soggetto, dalle sue attitudini simpatetiche, dall’altra c’è chi sostiene che tale giudizio presupponga un senso condiviso. È Kant che, inizialmente, con la sua Critica del Giudizio, propende per una condizione di necessità del consenso di una Communitas, di una Gemeinschaft. Inoltre, il valore sensoriale del giudizio del gusto non escluderebbe, secondo una sua riconosciuta legittimità estetica, una vocazione cognitiva. L’esperienza dell’arte non cessa di aprirsi tanto ad una prospettiva intersoggettiva quanto all’avvio di processi relazionali. C’è ancora chi ritiene che non si dia un’estetica che non sia anche un’antropologia, un giudizio del gusto che non sia, adornianamente, la mediazione di ogni immediatezza. Sul terreno di una comunione tra il Gusto del Cibo, l’Arte Figurativa e la Narrativa, impossibile non ricordare che proprio a Milano, nel 1982, un gruppo di intellettuali di sinistra, tra cui Antonio Porta, Alberto Capatti, Antonio Attisani, Folco Portinari, Antonio Piccinardi, Nanni Balestrini, fonda, sui temi dell’alimentazione e delle “culture materiali”, la rivista “La Gola”, edita da Gianni Sassi, dai cui contatti con Carlo Petrini, agronomo, scrittore, attivista, scaturirà, a Bra nel 1986, il movimento culturale internazionale Slow Food, con il nome di Arcigola. Come una scintillante strobosfera, dalle mini sfaccettature a specchio, ruotando riflette flash dello spazio circostante, così lo scenario espositivo di questi otto artisti della Fondazione PROGR di Berna, proietta in mostra un mosaico di linguaggi, di culture dei diversi Paesi di provenienza, di gusti, di passioni, di filosofie di vita, di visioni del mondo esterno ed interiore. La centralità del discorso, sul tema gastronomico, autorizza, da parte degli artisti invitati, uno sguardo esteso alle offerte dell’industria culturale, nelle sue varie modalità comunicative, performative, informative, nonché alla qualità cerimoniale dell’evento e conseguentemente a quei rituali e tic di massa che la TV, i media, ed il cinema, grandi elaboratori dell’immaginario collettivo, non cessano di indurre e stimolare quotidianamente. La mostra Estetica del Gusto. Delizie e Veleni di un menù di massa, attraverso i vari linguaggi praticati, slittanti tra pura manualità e tecnologia elettronica avanzata, anche in soluzioni interattive, restituisce una riflessione problematica, ma stimolante, sul potenziale dei nuovi media e sulle correnti di pensiero che ad esse fanno riferimento, generando per lo spettatore, quella dimensione di ordine dialogico, che consente di negoziare significati e di condividere esiti, operando nelle varie sfere del sociale, sia a livello pubblico che interpersonale.
Roberto De Luca
mediterraneo di nascita, mitteleuropeo di adozione (è nato a Rapallo nel 1962, Liguria, vive e opera a Thun e Berna) non cessa di lavorare sull’interfaccia tra una condizione interiore del comunicare, di carattere etico, e una modalità esteriore, di carattere estetico e relazionale. Questa pratica autorizza una lettura della sua opera, dall’oggetto singolo all’accumulazione ambientale, come lavoro di soglia, teso da una parte verso l’interno di uno spazio semantico, dall’altra verso l’azione di ritorno, il feedback, di una reazione esterna, di ordine collettivo. Lo specifico linguistico e l’interazione con il pubblico diventano pertanto fattori costitutivi dell’opera, che non è lecito separare senza rischiare una perdita di senso. Si intitola Tee-service il ciclo fotografico che l’artista presenta in mostra. In un’atmosfera tanto luminosa quanto rassicurante, silente, rarefatta, da sfiorare la dimensione conventuale o addirittura clinica, l’osservatore si confronta con uno scenario di rilassante, quasi mistica, attesa: l’invito a prendere il tè in un salottino barocco, dove un tavolo rotondo è apparecchiato con la massima cura, con tanto di tovaglietta ricamata in lino bianco, tazze, teiera, zuccheriera, bricco del latte, vassoio di biscotti. A ben guardare, tuttavia, l’apparente gradevolezza dell’ambiente è turbata da una serie di indizi inquietanti: nell’atto di accostare la tazza di porcellana alla bocca, per gustare l’odoroso ed eccitante infuso, l’ospite subirà lo choc di scoprire che le decorazioni del Servizio da tè rappresentano scene di umiliazioni, violenze, sevizie e tortura subite dalle fasce deboli dei civili o dai prigionieri militari nelle recenti o passate guerre, forse nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan o in altre zone di conflitto. La tensione dell’opera scaturisce dal contrasto tra lo smalto di una vita borghese, al riparo dalla volgarità, dal sudore, dal rischio e dal sangue e la realtà quotidiana vissuta in prima linea: due mondi che, a giudicare dagli effetti, sembra non siano troppo solidali.
Il Grido
(2015) è un multiplo facente parte di una situazione installativa intitolata Tee Service (2005), ideata dall’artista svizzero, di origine italiana, Roberto De Luca (nato a Rapallo nel 1962, Liguria, vive e opera a Thun e Berna) composta da una serie fotografica e da una tazza da tè in porcellana, di uso occidentale, con manico ad ansa, finemente decorata. Il tema del Grido, o dell’Urlo, così intensamente frequentato nell’arte moderna e contemporanea, raggiunge nel capolavoro omonimo di Edvard Munch, in Guernica di Pablo Picasso, nello Studio per una Crocifissione in Francis Bacon, l’apice del dolore dell’uomo, torturato dai suoi simili, vittima sacrificale dei conflitti del tempo, creatura sola e smarrita nel frastuono del cosmo. Il Grido di Roberto De Luca esprime la condizione spirituale di un Occidente diviso dai conflitti e dalla violenza, dall’angoscia permanente e dall’equilibrio del terrore. Antenna sensibile del suo tempo, l’artista registra la sofferenza, in una società globale, di un individuo che ha perso la sua centralità, la sua integrità, la sua fede nei valori di un umanesimo classico, in nome della tecno-scienza, dell’investimento, reale e metaforico, in un progresso e in una crescita tanto illimitata quanto indiscriminata. L’intento dell’opera di questo artista, se da una parte è quello di denunciare la violenza dell’uomo sull’uomo, la forza repressiva dei regimi totalitari, l’orrore della tortura, l’assenza di un progetto collettivo e di un rapporto solidale tra gli individui, dall’altra auspica un futuro orientato al rispetto, alla tolleranza reciproca, ad un’esistenza permeata dalla fede nell’umanità e dall’esercizio di un’illuminazione quotidiana.
Sulla Bocca di Tutti
Essere sulla bocca di tutti è un’espressione della lingua italiana che rinvia, in senso figurato, a una persona che dà adito a un gran parlare, tanto a livello positivo che negativo. La bocca è sede del gusto e della parola ed è proprio per questa doppia significativa valenza che l’artista multimediale Roberto De Luca non solo fa ricorso alla suddetta espressione come titolo dell’evento, ma coinvolge fisicamente labbra e cavità orale nel suo lungimirante progetto artistico. La modalità scelta dall’autore per essere provocatoriamente sulla bocca di tutti è quella di realizzare un lecca- lecca, oggi denominato anche lollipop – caramella di forme diverse posta su un bastoncino in legno o plastica, destinata soprattutto all’infanzia – la cui variante cromatica informa sul gusto/aroma che lo connota, che riproduca fedelmente il torso e il volto della sua persona. Altro significativo riferimento al mondo della comunicazione dei mezzi di informazione di massa è appunto il cosiddetto mezzobusto riferito alle avvenenti presentatrici o ai compassati presentatori televisivi, quotidianamente addetti ai telegiornali. La bocca è anche il tramite del messaggio orale e, in tempi arcaici, della cultura tramandata di generazione in generazione. Il termine lingua poi non è meno emblematico, riferendosi da una parte all’organo anatomico interessato alla degustazione, in questo caso del prodotto dolciario, e dall’altra a un sistema grammaticale e lessicale destinato alla comunicazione con l’altro/gli altri. Il rimando al consumismo, come effetto legato alla società del capitalismo avanzato e all’opera d’arte intesa come merce, non può essere evitato. Infatti nell’odierna civiltà dell’immagine e dello spettacolo la maggiore o minore visibilità di una persona o di un’opera, destinata al consumo pubblico, decide del suo successo o insuccesso. Il prezzo che si paga tuttavia in questo processo di distribuzione e disseminazione mediatica di sé nel mondo è a discapito della profondità del messaggio, che viene via via ridotto a una pellicola tanto più effimera quanto più estesa e globalizzata. La riflessione dunque di Roberto De Luca e della sua operazione Sulla bocca di tutti assume la gustabilità e freschezza gradevole di una caramella – e la sua inevitabile solubilità, nel contatto con il calore della bocca e della lingua – come metafora di un processo di fruizione e interpretazione multipla dell’opera e al tempo stesso di vanificazione della stessa all’interno del sistema iperconsumistico e spettacolare del XXI secolo. L’artista, che sensibilità e cultura hanno indicato e voluto, nei secoli, depositario illuminato della creatività e della poesia, sul terreno dell’espressione estetica e talvolta anche scientifica, rischia nell’epoca del globalismo planetario, della caduta dei valori spirituali e dell’omologazione dei linguaggi, di ridursi a un simulacro dove si agitano le voci della sua vanità. In conclusione, artista e fruitore possono ancora ribaltare le sorti dell’arte e forse anche dell’uomo e dell’ambiente, producendo, nel calore emozionale del contatto reciproco, un dialogo interpersonale e un messaggio formale/informale che restituiscano al loro destinatario quell’interiorità e quella identità profonda e inalienabile che un delirio progressivo di onnipotenza tecnologica gli hanno fatto progressivamente perdere.
David Zehnder
David Zehnder (nasce a Brig nel 1978, vive e lavora a Berna) è un artista che ha studiato alla Scuola di Fotografia di Vevey e alla Scuola d’Arte Contemporanea e Disegno di Berna. Come un comune fotografo scatta immagini o le preleva da internet. Attingendo da materiali di professionisti o di video amatori, trasforma il suo ruolo di autore-artista in quello di un ricercatore che, esplorando l’altrove tramite scatti di estranei, abbassa la sua carica di soggettività e alza il suo spirito critico, realizzando una ricerca di carattere sociologico, culturale e politico, nello stile del documentarista. Nelle foto di Deer Crossing, 2013, l’artista si pone la domanda sullo statuto dell’immagine fotografica, sull’appartenenza dello scatto e sulla natura decorativa di un soggetto, come il cervo, che ricorre in dipinti ed arazzi da chalet, in quella tipologia d’arte che prende il nome di Kitsch Wild. L’artista non manca di chiedersi a chi andrebbe riconosciuto il copyright di fotografie disponibili, su internet, a chiunque intenda appropriarsene, dal momento che è, generalmente, consentito sottrarre, come una goccia nel mare del web, un’istantanea al mondo interconnesso della collettività. Per di più – obietta l’artista – non c’è un fotografo che prema fisicamente, ad un dato momento, il pulsante della macchina fotografica. Chi avrebbe effettivamente scattato quell’immagine – si chiede – il cacciatore o il biologo che ha installato il meccanismo-trappola per l’automatismo dello scatto? Alla fine, quindi, ci sarebbe da chiedersi se la responsabilità è da ascriversi al dispositivo elettronico o ad un soggetto umano ben identificabile. In esplicita sintonia con il tema dell’alimentazione e della prestanza fisica è il ciclo di stampe fotografiche cm. 50×70, tratte anch’esse da internet, intitolato Body builders with different newspapers in front of different backgrounds. Sfilano, in sequenza, bizzarre figure maschili e femminili, seminude, che si esibiscono all’inizio della dieta o dell’allenamento in palestra o in un centro fitness, per la cosiddetta definizione muscolare, accompagnate dal giornale che, sovente in forma pubblicitaria, ne impartisce le autorevoli prescrizioni. L’imbarazzo, leggibile sul volto, dei vari soggetti, che si mettono in mostra in internet, con il rischio dei commenti ironico-sarcastici degli utenti, sembra essere motivato da un impegno ribadito con se stessi e dallo stimolo che ne potrebbe derivare a intraprendere una dieta o un allenamento seri. Questa espressione estetica di lavoro sul proprio corpo, sottoscritta dall’opera dell’artista David Zehnder, mi riporta, per un’analogia di intenti sociologici, politici, di discriminazioni di genere, ad una mostra alla Galleriaforma di Genova, negli anni Settanta, di Eleanor Antin (nata nel Bronx, U.S.A. 1935, vive a San Diego, California). L’artista-performer-film-maker, femminista, di segno concettuale, figlia di immigrati polacchi ebrei a New York, realizzava, infatti, nel 1972, un’azione sul suo corpo, usato come scultura, intitolata Carving/Intaglio. L’opera si articolava in 148 fotografie in bianco e nero che riprendevano, tramite quattro scatti al giorno, il suo corpo nudo durante la dieta di 36 giorni, intrapresa come contestazione di un ideale di bellezza e appeal conforme sia ai dettami della moda che a certi gusti maschilisti, ancora oggi parzialmente responsabili del fenomeno dell’anoressia e di quei disturbi del comportamento alimentare che sono diventati, nei giovani in particolare, un’allarmante epidemia sociale. Il lavoro di David Zehnder si configura come una riflessione sulla società dei touch screen, in cui la ritualità quotidiana, il consumo virtuale di un erotismo e di una violenza di massa, delineano un inquietante quadro del contemporaneo. In mostra, a Milano, presenta la video-proiezione All you can eat, 7’42”, del 2011: una serie di scatti ripresi, su internet, da video di dilettanti, in cui appassionati collezionisti di armi arrivano a presentarle sul tavolo dove consumano la prima colazione, con malcelato orgoglio, per ribadirne visivamente la proprietà. Il quadretto così concepito rientra classicamente nella tipologia della Natura Morta, il cui rimando alle simbologie di caducità delle Vanitas è inevitabile. David Zehnder, nel tentativo di sminuire la presunta garanzia di ordine e di valore sociale delle armi, focalizza, nella sua opera, l’attenzione sul cibo, auspicando una lettura della scena come quella di un menu, in cui la presenza delle armi diventi, per quanto insidiosa e ambigua, elemento decorativo. Niente lo può trattenere, tuttavia, dal testimoniare la facilità con cui ci si può procurare dei fucili in una società che ancora li collega ad un codice di maschilismo. Riproducendo il momento esibitivo, da parte di un soggetto anonimo, di armi, cibi, corpo, comportamento, Zehnder realizza un acuto ritratto delle insicurezze, delle paure, e del fanatismo di certi individui d’oggi.
Viana Conti