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Un divano coperto di tappeti persiani, che in realtà è un lettino, e uno scrittoio con alcune piccole sculture: ecco la riproduzione dello studio di Sigmund Freud proposta dalla pronipoteJane McAdam Freud. Ma appena si entra nella galleria C|E contemporary di Porta Romana a Milano non colpiscono solo il lettino e lo scrittoio, che accompagnano l’immaginario della psicanalisi nell’ultimo secolo, e neanche la staticità di un video bloccato su un’immagine, o gli autoritratti in filo di ferro appesi ai muri. A catturare sono il rosso delle pareti e del pavimento: lo studio di Freud e stato riproposto all’interno di un grande utero materno, generatore del conturbante dell’artista.
Il ciclo espositivo “Arte e Perturbante” curato da Viana Conti e Christine Enrile, aperto da Chantal Michel e dall’italiano Giuliano Galletta, vede ora protagonista la McAdam Freud, che mette a nudo il suo rapporto con la genealogia in un confronto di cui si fatica a vedere la risoluzione. L’autoritratto impossibile – Freud’s Study Merge è un dialogo con un bisnonno mai conosciuto, fondatore e padre della psicanalisi, di cui indossa il pesante nome, e con il papà assente, Lucien, il pittore che ha reinventato il ritratto contemporaneo: un dialogo a una sola voce, quello della Freud, che cerca risposte a domande rivolte allo specchio.
Con gli occhi grandi e sgranati, retaggio di un’infanzia bulimica dell’arte paterna, quando si rintanava nel suo studio per vederlo lavorare in silenzio, mi saluta da una finestra comparsa sullo schermo del computer. Iniziamo a parlare in italiano, ma è con l’inglese che emerge l’istinto.
Partendo dal titolo, è forte il legame con il testo del bisnonno scritto nel ’37, l’anno prima della sua morte, Analisi terminabile e interminabile: l’autoritratto diventa la possibilità di trovare una propria identità, in fondo è quello che avviene quando ci si guarda allo specchio. La persona cambia, evolve e cresce e di conseguenza anche il suo ritratto si modifica. Mi spiega la Freud: che «L’autoritratto è come un’analisi della propria identità, cogliendo i difetti, e iniziando a considerarli parte di te, del tuo essere, non più come elementi negativi o positivi, ma come elementi caratterizzanti, special insights, finché non vedi la tua famiglia che si riflette in te. È un esercizio di liberazione, che trascende la mera vanità estetica. Ma essendo tutto mutevole, i miei autoritratti prendono in considerazione solo la testa, staccata dal collo e dal resto del corpo, come se fossero un’introduzione alla persona, un primo approccio dal quale si percepisce la possibilità e al tempo stesso l’impossibilità di possedere interamente la conoscenza della persona».
Quindi l’arte dell’autoritratto diventa una terapia per capire e capirsi? «No – mi risponde secca – l’arte non è una terapia, ma un bisogno profondo, viscerale, che nasce da dentro. Io non scelgo di fare arte, non so perché faccio arte, ma sento che devo farla, è un bisogno: l’arte per me diventa uno strumento per capire la mia mente».
Come scrivono le curatrici Viana Conti e Christine Enrile introducendo la mostra, “L’identità di un soggetto è partecipe di un flusso di relazioni che lo precede e gli sopravvive”, e il passato emerge con vivida forza parlando del rapporto irrisolto con il passato. Spiega Jane McAdam Freud: «Il rosso delle pareti è un omaggio al sangue di mia madre, al suo utero che mi ha generata e simbolicamente un voler dare spazio alle donne portando la figura femminile al centro del discorso artistico, partendo dal sangue. Il sangue è vita, il sangue è donna, ma nella società, e nell’arte, è ancora un tabù. Nessuno sa che nella mia famiglia ci sono state studiose di filologia e architette, tutti ricordano solo le figure paterne, padri fondatori e precursori dei loro ambiti. Quando avevo otto anni, mia madre cacciò mio padre e rifiutò il suo cognome. Io però avevo bisogno di un confronto con la mia genealogia, con il mio passato. Non posso trascendere le mie origini, nessuno può farlo: questa è la vera e unica possibilità di trovare la propria identità nel mondo. Il confronto con i miei padri, attraverso l’autoritratto, diventa un dialogo impari che corre su due binari paralleli per capire e superare il mio io. Ecco, cerco la mia rivincita omaggiando mia madre, ma guardando il passato e cercando di superarlo».
Chiedo del materiale che la Freud ha adoperato per gli autoritratti, una rete metallica: «La rete è il simbolo perfetto per rappresentare tutto questo. Le recinzioni dei conigli, in un banalissimo filo di ferro, si possono saldare, sono trasparenti e ci si guarda attraverso, delimitano lo spazio ma sono visivamente leggere, racchiudono i contenuti ma al tempo stesso rappresentano simbolicamente i nostri istinti. Forse è determinata dal mio inconscio».
Il perturbante si manifesta in diversi elementi del lavoro della Freud: nel contrasto con la fama dei padri e nella necessità di rivincita per la figura materna. Il binomio vita/morte caro alla psicanalisi si concretizza nel montaggio del video Video Dead or Alive/ Vivo o Morto: alle sculture dello studio di Londra di Sigmund Freud vengono sovrapposti i disegni e le sculture della pronipote. Irretire i soggetti simbolizza la loro cattura: l’autoritratto, per antonomasia inafferrabile, cerca uno sbocco nella delimitazione, la rete diventa un linguaggio che, come una macchina fotografica, cerca l’istantanea del soggetto.
Con “Freud o l’interpretazione dei sogni”, Federico Tiezzi, prendendo invece in mano il testo di Stefano Massini che ha creato un “collage anarchico” tra l’Interpretazione e Introduzione alla psicoanalisi, vede nel teatro la soluzione per la rappresentazione dell’angoscia freudiana. Nel grande palcoscenico dello Strehler non c’è una storia, ma, quasi come un montaggio cinematografico, il susseguirsi ininterrotto dei sogni dei protagonisti del testo che ha segnato il Novecento, decomponendo la solida identità della borghesia ottocentesca. Gli abiti che riportano alla Vienna di Schnitzler e Schönberg, Klimt e Mahler, Otto Wagner e Ludwig Wittgenstein, ma la scena di Marco Rossi, incorniciata solo da una fila di grandi porte scure da cui entrano ed escono i personaggi, è un asettico studio con un lettino circondato da sculture di arte classica. Il primo è Wilhelm T. (Giovanni Franzoni), attanagliato dai sensi di colpa; poi Greta S. (Valentina Picello) che cantando cerca di sciogliere le proprie matasse interiori; Tessa W., interpretata con magistrale solennità da Elena Ghiaurov vestita come le dame dei quadri di Klimt; il marito Oskar K. (Umberto Ceriani) che accompagna la moglie Elga K. (Sandra Toffolatti) per i suoi sogni angoscianti, traccia mascherata della morte del figlio; Ludwig R. (Marco Foschi) che in un intrigante gioco dell’inversione dei ruoli torna a più riprese nel corso delle due ore e mezza di spettacolo; e ancora Hernest D. (David Meden), i coniugi F., Clarissa (Sandra Gigli) e Solomon (Michele Maccagno), Elfried H. (Bruna Rossi), e la moglie Martha Freud interpretata da Debora Zuin e Nicola Ciaffoni e Stefano Scherini nei panni dei colleghi psicanalisti. Il tutto districato da un Fabrizio Gifuni nei panni del maestro Freud che cerca nelle parole dei suoi pazienti il significato dei loro sogni e di conseguenza l’interpretazione della loro inquietudine. È attraverso il linguaggio che i ruoli in scena prendono forma, come dice Tiezzi: «I personaggi sono progetti che si formano, di fronte ai nostri occhi, proprio attraverso le parole». Ma è Gifuni-Freud che avverte l’urgenza di un confronto per comprendere le sue paure, che raggiungono l’apice in un corteo edipico, dove lui nudo e zoppicante accompagna insieme a lucertole giganti la bara del padre.
L’accettazione del perturbante è l’obiettivo irraggiungibile sia nel lavoro di Jane McAdam Freud sia nella messa in scena di Tiezzi: il suo Freud è un uomo che indaga sé stesso e che, scisso in un conflitto irrisolvibile, cerca la propria identità in un precario equilibrio.
Giulia Alonzo